Home Economia Disoccupazione giovanile per i neolaureati: penalizzate le donne ed il Sud

Disoccupazione giovanile per i neolaureati: penalizzate le donne ed il Sud

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L’età media di chi ha conseguito una laurea si è abbassata rispetto agli anni precedenti, eppure, 1 neolaureato su 3 è senza lavoro. Questo è ciò che emerge dal XXIII Rapporto AlmaLaurea, che ogni anno delinea il profilo e la condizione occupazionale dei laureati, sottolineando ancora una volta la forte disoccupazione giovanile nel nostro Paese.

La XXIII Indagine, presentata il 18 giugno 2021 in streaming dall’Università degli Studi di Bergamo, ha coinvolto 291 mila laureati che hanno concluso gli studi nel 2020 in uno dei 76 Atenei presenti da almeno un anno in AlmaLaurea.
In particolare, 165 mila hanno conseguito una laurea di primo livello, 89 mila hanno conseguito una laurea magistrale biennale e 36 mila una laurea magistrale a ciclo unico.

Dal rapporto emerge che l’età media di chi consegue un titolo accademico si è ridotta ancora ed è pari a 25,8 anni, dove le donne rappresentano oltre la metà dei laureati, ovvero il 58,7% del totale.

Nonostante ciò, l’indagine condotta da Almalaurea evidenzia come nel corso del 2020 ci siano state non poche criticità per quanto riguarda le opportunità occupazionali, in particolare per i neolaureati.

Disoccupazione giovanile: neolaureati al primo posto

Gli scenari futuri, a causa della crisi pandemica che da oltre un anno sta connotando il contesto nazionale e internazionale e dell’insieme delle crisi che l’hanno preceduta, sono sempre più caratterizzati da una miscela mutevole di dubbi, incertezze, complessità e vulnerabilità.

In particolare, nel rapporto Almalaurea si legge che: “tra i laureati intervistati a un anno dal titolo si rileva una contrazione del tasso di occupazione rispetto alla precedente rilevazione. La pandemia pare aver colpito soprattutto le opportunità di trovare lavoro, meno la qualità del tipo di occupazione trovata, anche se ciò rappresenta una media di situazioni profondamente eterogenee vissute da chi si è inserito nel mercato del lavoro prima e dopo l’emergere della pandemia”.

Difatti, pare che mentre per i laureati a cinque anni dal titolo di studi gli effetti della pandemia – relativamente agli indicatori analizzati – siano del tutto marginali, lo stesso non si può dire per i laureati ad un anno dalla laurea.

Secondo il confronto – con la rilevazione dello scorso anno – per i laureati a cinque anni dal conseguimento, il tasso di occupazione risulta in calo di 0,6 punti percentuali tra i laureati di primo livello e, al contrario, in aumento di 0,9 punti tra i laureati di secondo livello.

Mentre – sempre secondo tali ricerche – gli “effetti della pandemia sono più visibili nei neolaureati a un anno dalla laurea e sull’opportunità di trovare lavoro. Rispetto alla precedente rilevazione, il tasso di occupazione a un anno è diminuito di 4,9 punti percentuali per i laureati di primo livello e di 3,6 punti per quelli di secondo livello”.

Disparità di genere e disparità territoriali

Nel rapporto definito da Almalaurea, inoltre, si “confermano significative le tradizionali differenze di genere e territoriali mostrando, a parità di condizioni, la migliore collocazione degli uomini (17,8% di probabilità in più di essere occupati a un anno dalla laurea rispetto alle donne) e di quanti risiedono al Nord (+30,8% di probabilità di essere occupati a un anno dal titolo rispetto a quanti risiedono al Sud)”.

Disparità – queste – che confermano ancora una volta quanto in Italia non si riesca a ragionare in un’ottica di pari opportunità. Nonostante infatti i progressi sperimentati negli ultimi anni, le discriminazioni contro le donne e il divario di genere nel mondo del lavoro persistono ancora in molti paesi del mondo. Le donne sembrano essere ancora lontane dal raggiungimento dell’uguaglianza di genere in quest’ottica – ma non solo – dato che sono intrappolate in lavori poco qualificati e retribuite in maniera inferiore rispetto agli uomini, per l’appunto.

In tale contesto pandemico, per di più, il lavoro da remoto – lo smart working – è esploso nel corso del 2020 e rappresenta una modalità lavorativa che sarà interessante monitorare ben al di là del termine dell’attuale fase emergenziale.

Esso coinvolge il 19,8% dei laureati di primo livello e il 37,0% dei laureati di secondo livello occupati a un anno dal titolo. Tali valori appaiono decisamente più elevati di quelli osservati nella rilevazione del 2019, quando erano pari al 3,1% per i laureati di primo livello e al 4,3% per quelli di secondo a un anno dal titolo.

Pare inoltre che molte PA continueranno a sfruttare questa modalità di lavoro, avendone colto diverse opportunità, tra cui: una migliore conciliazione fra vita privata e professionale, un maggior benessere organizzativo e l’aumento della produttività e qualità del lavoro.

Foto di energepic.com da Pexels